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Nanotecnologie in medicina

Sviluppare soluzioni e farmaci basati su nanoparticelle, capaci di raggiungere il bersaglio della malattia in modo più efficace e mirato. È questo il terreno su cui si gioca la sfida delle nanotecnologie applicate alla medicina: un settore che fa della multidisciplinarietà un punto di forza. Ne abbiamo parlato con il ricercatore Ennio Tasciotti. Una laurea in biologia e un dottorato in medicina molecolare presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, da anni è attivo negli Stati Uniti, dove co-dirige il Dipartimento di Nanomedicina dello Houston Methodist Research Institute. Biologo di formazione, le tue principali aree di ricerca includono lo sviluppo di nanofarmaci contro il tumore e lo studio di bionanomateriali per la medicina rigenerativa. Di che cosa ti occupi in particolare?

Quando si sviluppano tecnologie per farmaci o materiali, impianti per ingegneria dei tessuti è inevitabile studiare la biologia di base del tumore. Fondamentale è capire – mediante la ricerca di base – come la cellula, il tessuto, l’organo o l’organismo rispondono ai nanomateriali, un tema su cui sappiamo ancora poco. Il nostro laboratorio parte dalla conoscenza dei meccanismi di base della biologia per migliorare il modo di sintetizzare un materiale che “piaccia” all’organismo per la rigenerazione dei tessuti, in particolare di quelli muscolo-scheletrici, di cui mi occupo. È il biomimetismo: un filone di ricerca giovane, volto a scoprire come il corpo risolve determinati problemi e a cercare di copiare quelle soluzioni per applicarle a tecnologie sintetiche, artificiali, realizzate in laboratorio.

Ultimamente mi sto focalizzando anche sullo studio di come il sistema immunitario contribuisce sia alla rimozione di un tumore – quindi a combattere la crescita tumorale – sia alla rigenerazione di tessuti e alla risoluzione dei processi infiammatori che si producono in seguito a un danno: una ferita o l’impianto di un materiale nel corpo. Il sistema immunitario è sempre il primo a rispondere. A questo proposito, il gruppo di ricerca che coordini ha individuato una soluzione innovativa per “ingannare” il sistema immunitario così da aumentare l’efficacia di un trattamento farmacologico. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature Nanotechnology in un articolo di cui sei autore corrispondente. Di che cosa si tratta? Uno dei principali problemi relativi all’utilizzo delle nanoparticelle in medicina è che queste, una volta iniettate nel corpo, vengono riconosciute immediatamente dal tessuto immunitario come estranee, e rimosse velocemente del fegato: i macrofagi del fegato le filtrano, immobilizzano ed eliminano in vario modo, annullando i benefici del trattamento. Basti pensare che il 90-95% delle particelle iniettate si trovano nel fegato dopo 5-10 minuti.

Questo problema è affrontato Nanotecnologie in medicina da alcuni gruppi di ricerca dal unto di vista chimico, creando sulla superficie delle nanoparticelle una corona idrofobica: una specie di schermo capace di renderle meno adesive e quindi più difficili da bloccare da parte del sistema immunitario. Io mi sono ispirato a un esempio tratto dal mondo biologico: l’interazione tra preda e predatore. In natura, per scappare al predatore, la preda può nascondersi mimetizzandosi con l’ambiente circostante o – è il caso del mimetismo batesiano – assumendo l’aspetto del predatore, in modo da non farsi riconoscere. Prendendo spunto da questo fenomeno, abbiamo sviluppato un sistema per isolare la membrana delle cellule del sistema immunitario e montarla sulle superficie delle particelle, mascherandole da sistema immunitario. Travestite da “guardie”, le nanoparticelle sono libere di muoversi all’interno dell’organismo per raggiungere la loro destinazione, il tumore.

Quali sono le grandi sfide con cui si confronterà la nanomedicina nei prossimi anni? Uno di questi è sicuramente la chemioterapia mirata per il rilascio dei farmaci tumorali esclusivamente alle cellule tumorali, in modo da risparmiare tutti i tessuti sani, che al momento prendono il 99,99% di farmaci. Ci sono già tantissime sperimentazioni cliniche che stanno testando questi nanofarmaci. In realtà due sono in terapia e hanno già dimostrato i vantaggi: il problema è che c’è un lunghissimo percorso che porta dalle scoperte in laboratorio sul modello animale alla conferma dei risultati nel paziente umano. Un strada molto lunga, costosissima, che richiede necessariamente una preparazione economico-finanziaria di chi fa ricerca e la partecipazione anche di altre figure professionali: medici, ma anche per esempio esperti di economia.
Fonti:
RESEARCH ITALY

di Luchino Melgrati - impaginato da Benedetta Iebole