Fin dall'antichità l'etica ha cercato di capire come le persone prendessero le proprie decisioni. In particolar modo ha cercato di comprendere quale fosse il fine ultimo delle nostre azioni. Rispondendo a tali quesiti, ha compreso che gli uomini prendono le decisioni mirando al raggiungimento della felicità. Ma cos'è la felicità? Molti filosofi nel corso dei secoli hanno dato una spiegazione, sempre diversa a seconda delle correnti di pensiero e dei periodi culturali.
Secondo gli Epicurei, la felicità è la totale assenza di quattro paure ritenute deleterie per l'uomo: la paura degli dei, della morte, del dolore e quella di non riuscire, appunto, a raggiungere l'obiettivo di essere felici. Eliminate tali paure, poi, una persona saggia deve distinguere i piaceri indispensabili da quelli superflui. I saggi, in grado di mettere in pratica tale distinzione sono, perciò, felici.
Un'altra filosofia precristiana che ha dato una risposta al problema è lo Stoicismo. Gli stoici vedevano l'universo come un'enorme macchina governata dal “logos”. Il logos, secondo gli stoici, è la mente razionale che regola tutto; per questo motivo esso detta anche la nostra vita. Un saggio, perciò, per raggiungere la felicità deve conformarsi alla razionalità cosmica, adempiendo ai suoi doveri. Inoltre, deve essere in grado di raggiungere l'apatia, perché le emozioni potrebbero allontanarlo dal proprio dovere.
Secondo il Neoplatonismo esiste, invece, una sostanza dalla quale deriva tutto: “l'Uno”. L'Uno è traboccante di essere e tutte le cose cercano di raggiungere la sua perfezione. L'uomo tramite un percorso interiore può arrivare all'Uno raggiungendo, così, l'estasi. L'estasi è il grado massimo di felicità che si possa conseguire.
Con la nascita del Cristianesimo, la questione ha assunto un'altra prospettiva. La visione cristiana ha portato un concetto fortemente “rivoluzionario”, quello di vita eterna. Il nostro corpo è abitato dalla nostra anima immortale; dopo la morte l'anima si merita o il Paradiso o l'Inferno. In vita occorre, dunque, mirare alla felicità ultraterrena, cioè al raggiungimento del Paradiso, dove si resterà felici per l'eternità. Essa sarà però una felicità che non ha nulla di terreno, sarà una beatitudine: la sensazione, come scrive Dante nella Commedia, di sentirsi parte integrante ed indispensabile del progetto divino. Secondo il Cristianesimo, se in vita invece si esclude Dio, alla nostra morte saremo destinati alla dannazione eterna. Per questo motivo il nostro tempo sulla Terra, anche se breve, va vissuto al servizio di Dio. Se ci si dona completamente a Dio, anche se in vita non si sarà felici, si potrà essere certi che, dopo la morte, ci attenderà una vita eternamente felice che non può essere paragonata né alla dimensione né all'intensità della felicità terrena, anche perché quest'ultima è temporanea e passeggera, fatta di oggetti, o comunque di materialità, che sono destinati a finire
Ai giorni nostri, in un mondo sempre più secolarizzato l'ideale comune e diffuso di felicità si allontana spesso da quello del pensiero cristiano; oggi, molto semplicisticamente, crediamo che facendo quanto ci piace, raggiungeremo la felicità; quest'ultima è diventata perciò un concetto esasperatamente egoista, tipico di un'età come la nostra ancorata a falsi principi, che si imperniano su varie forme di egocentrismo. Questa visione dimentica poi che gli altri ci aiutano a costruirci una dimensione di soddisfazione e di felicità, attraverso quello che riusciamo a donare loro, ad iniziare dal tempo, il bene sicuramente più prezioso che possiamo offrire.